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Contemplare la Comunità

di Giuliano Piazzi

Il bambino, al seno materno, non solo si nutre di proteine.
Si nutre, soprattutto, di un’esperienza simbolica.
Il volto della madre lui non lo guarda: lo contempla.

La sofferenza di ogni ragazzo tossicodipendente e della sua famiglia è una sofferenza inaudita.
Di fronte a questo tipo di sofferenza – e per chi ce l’ha dentro – non ci sono risposte.
Il nostro corpo e la nostra mente non sono all’altezza della situazione.
Nel nostro attuale repertorio emotivo e neocorticale non ci sono gli anticorpi adeguati. Non c’è nulla che possa farvi fronte.
È del tutto impossibile trovare un minimo di convivenza con il dolore della tossicodipendenza.
Oppure: sì, è possibile. Però sapendo di compromettere seriamente la salute.
C’è soltanto malattia, paura, tanta paura. E sgomento.

Questa è la tossicodipendenza. E lo è insieme al fatto, incontestabile, per cui nella tossicodipendenza è implicito un esito di morte.
Un esito non scontato ma che c’è. Ed è del tutto possibile.

Questa tossicodipendenza, con tutta la sua durezza non selezionata, entra nella comunità di San Patrignano.

Ci sono i luoghi dove agisce la tossicodipendenza (le famiglie, le piazze, le discoteche, il mercato, le vie e le case dello “sbattimento”, ecc.).
C’è la comunità di San Patrignano.
E ci sono i singoli ragazzi.
Dentro ognuno di questi luoghi, nella comunità e dentro i singoli ragazzi, c’è, dunque, una distinzione di fondo.
Generativa e che decide di tutto il resto.

Questa distinzione è ciò che separa la vita dalla morte.
E fa capire quanto segue: il significato vero e più intenso della vita consiste nel fatto che la vita non è altro che avversione nei confronti della morte. Avversione nei confronti di quella morte che non sia già di per sé scritta nell’ordine stesso della singola vita. Una morte che, per così dire, non rientra nel progetto della singola vita e del suo codice.
Non capirlo – o attendere che si verifichino situazioni tanto estreme per saperlo – fa male, molto male, credo, alla vita stessa.

In ogni, singolo, ragazzo tossicodipendente la vita è molto presente.
Oggettivamente presente. Con determinazione. Ostinata.
Si tratta, però, di una vita che va al di là del vissuto soggettivo – conscio e non – del ragazzo. Non è la vita che gli hanno insegnato ad amare. Non è la vita elaborata nei miti della socializzazione.

La teoria lascerà alle più disparate intelligenze cognitive il compito di dire parole sull’istinto di autodistruzione, e così via. Può darsi. Ma questa eventuale tendenza all’autodistruzione succede proprio perché la vita è stata già tolta da sé. Mediata. Virtualizzata in un’altra vita. Nel linguaggio di una soggettività che si è costruita sui percorsi simbolici delle differenze interne alla vita stessa. Altrove.
Storie di vita. O vita come storie, come biografie relazionali, ecc. che hanno elevato la vita alle sue metafore.
In ogni ragazzo, c’è la presenza di una vita che reagisce alle sue falsificazioni. C’è la vita che è contro la morte.

A questo punto, la prima sensazione della teoria è che in ogni singolo ragazzo/ragazza, c’è una specificità occulta.
Dal punto di vista delle forme sociali, ogni singolo ragazzo può sembrare – anzi è – un essere generico.
Niente interessi, o molto semplificati. Nessuna motivazione, o quasi. Nessuna caratterizzazione in termini di capacità, attitudini, predisposizioni, competenze, ecc. Niente motivazioni, nessun impegno particolare, ecc.

Questo vuoto è solo apparente. Oppure è reale.
Ma solo dal punto di vista delle osservazioni del sociale e delle sue pedagogie.
Al di sotto ci sono dei contenuti. C’è pienezza.
In ogni ragazzo c’è una sua identità.
C’è un essere specifico.
E chi sa da dove viene.
Non è comunque del sociale. Neppure se il sociale viene considerato nelle sue forme elementari.
Viene prima, molto prima.

La teoria dice: è la vita/non vita.
La condizione di specificità che c’è in ogni, singolo, ragazzo non è altro che la vita. La vita in quanto distinzione dalla non vita.

La vita/non vita dice che il senso della vita è solo nel singolo individuo.
La vita è singolarità.
Non ha senso parlare di vita in generale. E, tanto meno, di vita come esperienza collettiva, di gruppo, della comunità, dello stato sociale, ecc..

Il fatto è che ogni vita è singolarità proprio perché ogni vita è condizione di specificità.
Ogni vita è così, e non può essere altrimenti.
Il singolo individuo è un’esperienza specifica perché non può essere con criteri al di fuori di lui stesso.

Solo che tale specificità non significa affatto che un determinato individuo è non equivalente, non co-fondibile, del tutto diverso, ecc., rispetto agli altri.
Vuol dire, semplicemente, che non c’è neppure il problema del confronto-diversità con gli altri.
Due individui possiedono ciascuna una propria specificità perché entrambi sono ciechi l’uno rispetto all’altro.
Sono entrambi specifici non perché del tutto diversi e non generalizzabili l’uno rispetto all’altro.
Sono entrambi specifici perché lo sono prima di vedere che sono non equivalenti, non co-fondibili, ecc..
La specificità di cui parla la vita/non vita non si vede.
C’è e funziona, ma non dà sintomi particolari per l’evidenza esterna.

Vita/non vita vuol dire, certo, che la vita è materia che si fa idea.
Ma se la vita è materia che si fa idea, ciò significa che ogni, singola, vita è un progetto.
L’uovo fecondato è già vita perché uovo fecondato vuol dire che lì c’è un progetto.
La vita è idea.
E lo è perché è un tutto che trascende la materia empirica della materia fisico-chimica di cui pure è composta.
Però non solo per questo. Lo è anche e soprattutto perché è un progetto.
Dire tutto-idea significa dire: un progetto.
La banale materia bio-chimica è, in realtà, un progetto.

Al di là dell’osservazione empirica c’è, dunque, un’idea, un progetto.
Ma se la vita come idea significa che ogni, singola, vita è un progetto, ciò, a sua volta, significa che ogni, singola, vita è uno spazio matematico.

Sic!
Il semplice uovo fecondato è un’esperienza straordinaria perché un semplice uovo fecondato è semplicemente la nascita di uno spazio matematico.
Questa è la prima, vera, nascita.
L’uovo fecondato non è un groviglio ancora informe di cellule.
Non è una semplice realtà bio-chimica che, al momento e di per sé, non sa ancora essere un’individualità ben delineata.
Oppure è anche così. Ma non è questo il punto.
Il punto è, invece, che l’uovo fecondato è una realtà tanto astratta e sublime da coincidere con la metafora dello spazio matematico.

La vita (il semplice uovo fecondato) è una struttura astratta o latente che raccoglie in sé tutte le condizioni essenziali per la sua realizzazione; pur non essendo, questa struttura astratta, riducibile a nessuna di queste condizioni, a nessun reticolo di condizioni o forme particolari realizzate.

Il singolo individuo, determinato dalla vita/non vita, è un individuo tutto avvolto in se stesso. Chiuso, o che tende ad essere autoimplicativo.
È un individuo che non ha forma sociale.
Non è socialmente trattato.
Ogni, singolo, individuo. E non solo ogni, singolo, ragazzo tossicodipendente.

Eppure – come si sa – vive insieme agli altri. Bene o male. Più o meno a distanza.
C’è, in ogni caso, uno spazio relazionale in cui lui si muove.
Non è separato.
Ci sono rapporti, linguaggio, comunicazioni, gruppi, organizzazioni, ecc.
Ci sono. Anche se non dentro di lui, sono intorno a lui.

Allora, la teoria si pone la seguente domanda:
come potrebbe essere questo intorno, proprio laddove e quando il singolo individuo non ha una forma sociale?
Di che tipo potrebbe essere l’ambito non individuale in cui tale individuo ha modo di esistere concretamente?
Non solo come possibilità appena innescata e a rischio, ma di fatto, in maniera concretamente attiva?

Per la teoria questa domanda è inevitabile.
È dovuta alla sua maturazione.

In luoghi come San Patrignano la struttura portante è la distinzione tra la vita e la morte.
Ad essa, però, si uniscono alcune caratteristiche interessanti che vale la pena di osservare.
Forse, aiutano a dare un significato un po’ più famigliare a quella distinzione.

Intanto: non esistono differenze che siano prive di proporzione.
Non c’è impianto asimmetrico nella vita di tutti i giorni. Qui è improbabile costruire qualsiasi tipo di senso che si regga su differenze di valore.
Non c’è modo che il singolo ragazzo possa avvertire una sua differenza in più o meno nei confronti degli altri.
Il coordinamento delle reciproche aspettative non può avvenire su questa base. E neanche la comunicazione.
Neppure c’è differenza fra i vari settori.
Chi lavora nella porcilaia, ad esempio, è improbabile avverta di essere stratificato su di un piano inferiore rispetto a chi lavora in altri settori.
Selezione, confronto di merito, più bravo e meno bravo, ecc.; pathos della distanza: sono operatori sociali del tutto superflui.

Poi, c’è omogeneità fra i vari mondi della vita che compongono questi luoghi.
I valori e, soprattutto, il modo di sentirli sono nella famiglia.
E sono esattamente gli stessi che circolano nei settori di lavoro, negli uffici, nell’asilo nido, nel doposcuola, nei momenti dello sport e delle attività creative, nella grande sala da pranzo, ecc.
Ci sono, insomma, scarse possibilità di mandare in giro immagini retoriche in contrasto fra loro.
Non ci sono possibilità di confronto-variazione-selezione che possono far capire quali surplus di vita possano andare meglio di altri.

Il che sarà anche un difetto o un male.
Già: ma solo se il fine è quello di desiderare una maggiore ricchezza di complessità.
Ancora vita/vita.

A San Patrignano la distinzione è fra la vita e la morte.
E la distinzione fra la vita e la morte è una cultura.
Anzi: una antropologia.
Però la sua anima non si coglie nelle parole o nei discorsi. Non è nel linguaggio o nella comunicazione che essa dichiara la sua presenza.
“Si sente a pelle”.
È l’aria che si respira. C’è ovunque.
Nei dettagli e nelle minuzie. Nella gioia e nel dolore. Dove si ride e dove si piange.
Nei grandi gesti di affetto e di solidarietà.
Nei conflitti. Nei torti. Nelle paure.
Nella speranza. Certo.

Ma non è un’anima collettiva.
Questo è il punto.
Uno dei punti più impressionanti e commoventi per cui la teoria entra in sintonia con ciò che dà un senso a tutto il materiale empirico.
Questa è la straordinaria potenza di questi luoghi, di questo mondo impossibile della vita che è perché è contro la morte.
E che il mondo si ostina a non capire.

L’aria che si respira non è tanto un qualche cosa che sta fuori il singolo ragazzo e che di lì gli entra poi dentro.
Nel cuore e nel cervello.
Non è questa la direzione giusta. Semmai è l’inverso.

Il fatto è che la vita/morte è già dentro il singolo ragazzo. È alla radice del suo essere. Del suo nuovo essere.
È, per così dire, ciò che farà di lui un nuovo vissuto.
Sconosciuto anche per lui.

Loghi concreti come San Patrignano sono luoghi dove c’è un’esperienza complessiva. Di carattere non individuale.
E dove c’è la distinzione fra la vita e la morte a decidere tutto.
Però questa distinzione decide di tutto non nella sua veste di essere un fatto collettivo.
In questi paradossali luoghi di esperienza non individuale ciò che invece decide di tutto è proprio il vissuto individuale.

Questa distinzione è ovunque. Nei tempi e nei ritmi della quotidianità.
C’è una esplicita e decisa organizzazione razionale del lavoro.
Ma, ancora prima, fra i ragazzi si instaura una sorta di densità morale.
Un insieme reticolare di azioni e reazioni fisiche, somatiche, gestuali. E di linguaggio orale. Forse empatico.

Ne risulta qualche cosa di nuovo.
In apparenza non più al singolare.
Un clima. Un’aria che si respira, appunto.
Ma questo clima è lì soltanto per rendere fruttuoso ciò che in ogni, singolo, ragazzo, c’è già.
Non diventa sentimento ed azione collettivi.
Sentimenti ed emozioni rimangono soltanto individuali. Unicamente nella loro forma individuale.

L’aria che si respira non si eleva rispetto al singolo ragazzo.
Non diventa a lui trascendente.
Non emerge.
Non può diventare una vita collettiva con proprie regole autopoietiche di funzionamento e sviluppo.
Si sgonfia subito. Si disperde. Si frantuma.
Atomi di ossigeno.
E di veramente concreto rimane soltanto il vissuto individuale fine a se stesso.
Suscettibile di essere valorizzato come tale.

Il punto di svolta è proprio questo: lì c’è cultura che però non è un fatto collettivo.
Nasce dalla interazione materiale e psichica di più corpi e più menti.
Ma non li trascende.
Si capovolge il rapporto fra l’individuo e il sociale.
Anzi, così come è conosciuto dalla teoria, il sociale non è più nemmeno il sociale.
Qui la cultura non è un sistema omogeneo e codificato che, in un qualche modo, si aliena rispetto al singolo.
Non c’è – come si diceva una volta – reificazione.

La cultura “si sente a pelle”.
Lo sente il singolo ragazzo.
E lo sente da dentro, perché ciò che sta fuori altro non è se non una proiezione inalterata di ciò che sta dentro.

La distinzione fra la vita e la morte è dentro il singolo ragazzo.
Concretamente è solo lì.
Ed è per questa via che essa fa il suo ingresso in luoghi di esperienza non individuale come San Patrignano.
Ma rimane sempre una verità individuale.
E si può adempiere solo come tale.

La sequenza – teorica – è:
il sociale non ha più forma sociale = c’è una forma non sociale del sociale = il sociale non è un’esperienza emergente rispetto al singolo individuo = il gruppo, la relazionalità, gli altri, ecc. sono solo un intorno = l’intorno è solo una funzione in favore del singolo individuo.

Se così è, allora:
questo singolo individuo non può essere che la distinzione fra la vita e la non vita.
A questo punto, non ci sono alternative.

Forma non sociale del sociale vuol dire che lì – anziché esserci un sociale vero e proprio – c’è solo un intorno.
E, se c’è un intorno, vuol dire che lì il non individuale ha l’unico scopo di proteggere e favorire l’individuale.

Allora: tutta questa sequenza può avere una sola conclusione:
l’individuo di cui si parla non può essere altro che l’individuale della singola vita biologica.
Cioè: la vita/non vita.

C’è San Patrignano.

Questo luogo fa due cose:
1) Accoglie il singolo ragazzo, il quale ha in sé la disponibilità della vita/non vita a essere valorizzata.
Fuori non ci sarebbe riuscito.
La vita/non vita sarebbe stata anch’essa distrutta dalla droga. Come tutto il resto della sua biochimicità.
2) Lì – all’interno di questo intorno – la vita/non vita riesce concretamente a essere valorizzata.
In ogni caso: lì esistono davvero le condizioni di senso affinché essa riesca concretamente ad essere – fino in fondo – ciò che essa è già.

La verità – quella verità che timidamente è abbastanza sfuggita alla socializzazione normale grazie alla vita tossica – inizia pian piano a prendere forza.
Evita di assumere forme negative, a rischio.
Si rende pulita, perbene, rispettosa, con la cravatta; e fa tutte le cose normali di questa terra: senza essere normale.

Essere normali in luoghi come San Patrignano vuol dire: essere un “altro mondo”, e non tornare a essere, o diventare, una persona normale.
Non un individuo normalizzato come persona.

Qui “stare bene e capire la vita” significa:
“diventare un mondo completamente diverso”.
Costruito tutto da dentro.

Non c’è comunità.
Non c’è terapia.
Niente comunità terapeutica.
Niente di tutto questo.

Infatti: comunità – con o senza terapia – vorrebbe dire: guarire, o socializzarsi in via normale e per uno scopo di normalità.
Ossia: secondo le regole dell’esterno: che sono quelle delle distinzioni fra una forma di vita ed un’altra.

No. Non è proprio il caso.
Da questo punto di vista, il singolo ragazzo ha già dato.
Anche troppo.

Dunque: nelle forme non sociali del sociale, la vita/non vita ha modo di farsi capire e di crescere.
Viene così capovolto, o negato, il significato normale (sociale) dei valori, dell’essere se stessi, del lavoro, dell’ordine, del gruppo, ecc. .

Può essere anche l’inverso.
Come dire: c’è prima tale capovolgimento e, quindi, c’è la vita/non vita che cresce.
Ma è la stessa cosa.

Vita/non vita che cresce vuol dire che tutto l’intorno – il non individuale – è una valorizzazione di fatto – oggettiva – della singola vita.

Vita/non vita che cresce vuol dire: i valori vengono “sentiti come più essenziali”.
Sono “più convincenti”. Incidono di più.
Amicizia, solidarietà, rispetto, onestà, ecc. sono presi “più seriamente”.

Perché?
Cosa vuol dire?

I valori sono gli stessi qui e fuori di qui. Più o meno.
L’insistenza comunicativa è più o meno la stessa.
Non è che in luoghi come San Patrignano i valori ci sono e fuori no.
Oppure che in luoghi come San Patrignano c’è una maggiore serietà pedagogica nel proporli, nel farli apprendere.
E non è nemmeno perché in questi luoghi c’è una maggiore costrizione a ficcarseli in testa.

Le forme non sociali del sociale non sono una comunità.
E, tanto mento, una società.
Non sono una cultura in grado di funzionare come mediatore esterno fra il corpo, il cervello e la mente del singolo.
Non sono capaci di dare l’imprinting.
Il fatto è che, qui, tutto quello che viene detto, comunicato, sentito, appreso, ecc. non è mai opera di un codice esterno alla specificità del singolo ragazzo.

Questa maggiore “serietà” dei valori è proprio dovuta al fatto che qui non c’è scarto essenziale fra la singola vita biologica, da un lato, e le funzioni superiori, dall’altro.
Fra il bios e la neocorteccia.
Non c’è salto di qualità fra il semplice uovo fecondato, da una parte, e la coscienza, dall’altra.

I valori fanno più presa perché qui – e nel singolo ragazzo – c’è una coscienza che è direttamente ispirata da dentro.
L’apprendimento, se così si può dire, di quei valori non può essere superficiale.
Non può essere una questione soprattutto di neocorteccia.
Il loro apprendimento è, invece, un apprendimento dal profondo.
Ad opera di una neocorteccia dominata dal profondo.

Poi ci sono l’ordine, la disciplina, le regole, ecc. che sono tutti strumenti che non servono assolutamente per la formazione o l’educazione di una vita biologica che deve diventare persona.

Sono, comunque, una costruzione.
Sì, una costruzione a dipendere solo da ciò che il singolo ragazzo è già per conto suo. Come singola esperienza autoimplicativa.

In questo tipo di costruzione, sembra ci sia una sorta di messaggio:
“dovete disciplinarvi in modo tale da non costruirvi nel confronto-differenza con gli altri.
Occorre evitare di crescere come individui che sono poi una funzione del sociale”.

E per ottenere questo ci vuole, forse, più disciplina, più regole, più (auto)determinazione.
Formarsi come individuo che dipende unicamente da un progetto ideato nel genoma è più difficile che formarsi come individuo che dipende da un progetto sociale.
Si può, si deve, stare insieme, vivere il gruppo, gli altri.
Certo. Ma a questa condizione.

Intanto: il gruppo non è un fatto emergente; e, quindi, non è un’esperienza collettiva.
È un luogo non individuale. Ma non per questo è un luogo collettivo.
Se lo fosse, starebbe a dire che, in un qualche modo, è lì per trascendere il singolo ragazzo. E farlo uscire dalla sua singolarità.
Con o senza compensazioni.
Non è così.

Non è attraverso il gruppo che il singolo può “scoprire se stesso” o trovare “parti nuove di se stesso”.
Non è educandosi al gruppo che il singolo può migliorarsi. O togliersi di dosso taluni egoismi, incomprensioni e chiusure nocive a lui e agli altri.

Tutto questo avrebbe un senso se il singolo costruisse se stesso o scoprisse se stesso guardandosi nella doppia contingenza. Nel confronto con gli altri.
Ma così non è.
E se così fosse si tratterebbe ancora di un’esperienza fondata sulle distinzioni fra una forma di vita ed un’altra.
Ma così non è.

Non c’è qui una coscienza di gruppo.
E, quindi non ci sono risorse diagnostiche o morali proprie ad una coscienza-emergente-di gruppo.
Ma anche se ci fossero, non è lì che si potrebbe stabilire, o capire, cosa è bene e cosa è male per la singola coscienza del singolo ragazzo.

Il gruppo non ha qui simili compiti.
Li avrebbe se, appunto, fosse un piano di realtà emergente rispetto alla realtà dell’individuale.
Ma qui, non c’è l’umanesimo del gruppo.
Qui, il gruppo non è mai un tutto di qualità superiore alla somma delle singole parti.

Il gruppo ha valore solo se non è un gruppo.
Il suo unico compito è quello di non ostacolare la singola vita/non vita che cresce.
Può essere favorevole o neutro.
L’importante è che non sia impeditivo.

In fondo, il gruppo non è altro che uno stare insieme da parte di singole distinzioni vita/non vita: che rimangono tali.
Non dando luogo a nessuna entità trascendente, queste singole distinzioni trovano il modo di crescere ciascuna nella propria solitudine.
Cioè: ciascuna nella propria salute.

“Abituarsi agli altri”.
Vuol dire: non costruirsi su di loro.

Rispettare gli altri. Certo.
Ma perché non ce ne è bisogno.
Fuori – dice il singolo ragazzo – gli altri li debbo rispettare perché fuori ne ho bisogno.
E ne ho bisogno per trovare me stesso. Per tracciare una mia storia, e per crescere come persona.
Qui no.
Qui, ciò che io sono, lo sono indipendentemente dagli altri.

Il problema è tutto mio, interno.
Si tratta di fare funzionare un progetto di vita che è perché è contro la non vita.
Le distinzioni fra le varie forme di vita non sono di questo progetto. Gli sono estranee. Io ci sono prima. Molto prima.
E non c’entro con le identità costruite nei processi di confronto-variazione e selezione.

Qui, stare insieme significa, in effetti, stare con la propria solitudine.
Stare – e stare bene – insieme agli altri è davvero quello che ci vuole.
Però: questi altri sono lì solo come garanzia per la mia libertà alla solitudine.

Non isolato: che in tal caso c’è sempre bisogno di dipendere dagli altri.
O che ha necessità di una storia di relazioni affettive per capire di essere un Sé.

Anche tutto questo diventa un intorno, che sarà neutro o favorevole.
L’importante è che non sia mai di ostacolo.
Ma di ostacolo non può essere.
E non può esserlo perché, appunto, lavoro, famiglia, affetti, ecc. sono un intorno, e non un sistema emergente di relazioni.

La vita/non vita cresce.
Il ragazzo fa, dice, compie, comunica, agisce, reagisce, pensa: e ciò in quanto esperienza autoimplicativa.
L’essere di una vita che è salute in sé e per sé.
In ogni, singolo, ragazzo c’è la vita in quanto realtà virtuale.
Ed è questa vita che decide della sua stessa vita in quanto realtà biochimica.

L’effetto del paradosso sostiene: qui non c’è rapporto comunitario, non vita comunitaria, non appartenenza comunitaria, ecc.: tutto questo è un dato superficiale per chi non ha voglia di capire.

Non c’è senso della comunità.
Almeno: non è questo il punto.
Non incide. Non è formativo.

Ciò che conta è sempre l’aria che si respira.
E questa aria c’è perché a respirarla è ciascun, singolo, ragazzo in sé e per sé.
Se non ci fosse la vita/non vita in azione dentro ogni, singolo, ragazzo, non ci sarebbe neppure quell’aria da respirare.

Il ragazzo può “esprimere tutto se stesso”.
Però, tutto dentro di sé, in un circuito interno.
Esprimere tutto se stesso qui significa: essere sempre nel pieno della propria vita biologica in quanto tutto-idea, realtà virtuale, progetto.
Sempre, in ogni tipo di esperienza.
E, dunque, significa essere sempre una salute tutta interna.

Il ragazzo fa, dice, comunica, si muove, ama, reagisce, soffre: è sempre il suo essere una esperienza autoimplicativa.
Vale a dire: tutto questo non è altro che una spinta fisica per gli altri.
Qualsiasi altro ragazzo sarà di qui spinto a fare funzionare il suo statuto di esperienza autoimplicativa. La sua specificità.
Punto e basta.

È questa una condizione indispensabile.
Solo a questa condizione ci potrà essere rapporto, comunicazione, affetti, lo stare insieme, linguaggio, ecc.
Senza, naturalmente, essere né rapporto, né comunione, né linguaggio, ecc.


26 Settembre 2012
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