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I genitori del “dove ho sbagliato?”

Si fa presto a dire droga, tossicodipendenza, disperazione, incomunicabilità, dramma. Altrettanto facile è associarsi alle troppe parole che si spendono sulla solidarietà, sul sociale, sulla formazione, sull’auto-aiuto con cui si cerca di rimediare a tante tragedie private e personali.
Poi si viene qui, nella stanzetta nascosta da una saracinesca in un garage del quartiere Tuscolano a Roma, da qualche tempo fortunatamente sostituita con una nuova sede più dignitosa, e si capiscono molte più cose. Della droga, della solidarietà e dell’Anglad, acronimo di ‘Associazione nazionale genitori lotta alla droga’.

Storie diverse e tutte uguali
Basta guardare le facce dei padri e delle madri che raccontano le loro storie, tutte diverse e tutte uguali, basta assistere a qualche colloquio dei ragazzi che, preceduti o accompagnati da un fidanzato, un fratello, un genitore, spiegano con quanta inconsapevolezza si sono infilati in questo che è persino scontato definire ‘tunnel’. E con quanta incoscienza continuano a starci dentro, incapaci di accendere nel loro cuore e nella loro testa il barlume di luce necessario per trovare l’uscita.

Soltanto ai pochi davvero intenzionati a farlo si apriranno le porte di San Patrignano o di una delle strutture alle quali e per le quali l’associazione di Paolo Di Laura fa da ‘anfitrione’.
Ma con tutto il dovuto riconoscimento per una persona che da una vita – dopo la precedente, spesa a cercare in ogni modo qualcosa di cui farsi – cerca di salvare i più disperati da un futuro di disperazione, i protagonisti dell’associazione sono altri, sono i genitori. Come da denominazione ufficiale. Papà e mamme inizialmente terrorizzati, a lungo spaesati, poi man mano sempre più coscienti e capaci di trasferire la loro esperienza a vantaggio dei nuovi arrivati, quanto meno per far capire loro che certe tegolate piovono sulla testa delle famiglie molto più spesso di quanto si pensi.

Il papà di Massimo (i nomi sono tutti di fantasia, of course), del figlio, l’ha capito “solo dopo un incidente d’auto: gli fanno il prelievo e scoprono tutta la porcheria che s’era messo in corpo”. Ma sapere non vuol dire né capire, né affrontare il problema. Ci sono voluti “altri quattro, cinque anni, prima che ci decidessimo definitivamente”.
Anni quasi sempre passati tra altalenanti tentativi di blandire e di punire, cui corrispondono le solite promesse, le eterne promesse del ‘tossico’: “Prima se ne è andata di casa, poi è tornata, ma solo perché aveva finito i soldi. Ora non sappiamo se cacciarla, cosa dobbiamo fare?”, chiede e si chiede la sorella maggiore di Valeria. Paolo Di Laura spiega che non c’è altro modo per chiudere che farlo ‘senza se e senza ma’, mettendo la persona con le spalle al muro. Ma la famiglia ha sempre paura di spezzare quel filo di rapporto che ancora resiste, anche se è ormai ridotto a mera convenienza.

“La tossicodipendenza è una tappa di un disagio più profondo e precedente”, spiega ogni volta Paolo, sempre con la stessa pazienza e veemenza. “E’ scontato dirlo, ma la difficoltà nell’affrontare il problema della tossicodipendenza è l’espressione delle stesse difficoltà relazionali da cui in genere il problema nasce”. I genitori ascoltano attoniti, seduti, con gli occhi fissi davanti a loro, puntati su Paolo, quasi ne aspettassero un segno taumaturgico, oppure pronti a spostarli sulla persona che di volta in volta si alza per dire la sua.

Disagio non vuol dire povertà
Qualche volta, si tratta di una testimonianza così dura, amara, agghiacciante, che nemmeno davanti agli altri si può confessarla tutta. “Sono vedova di un alcolista disoccupato, ho sempre tirato avanti con fatica, lavorando, nonostante sia invalida. Non ho mai davvero avuto un rapporto con i miei genitori, mio figlio è l’unico affetto della mia vita. Cosa posso fare?”, tira fuori d’un fiato, come se si liberasse, la madre di Stefano.

Ma non si deve credere che il disagio equivalga necessariamente a povertà, emarginazione o miseria ‘morale’. “La mia maggiore disperazione nasce proprio dal fatto che la nostra è una famiglia a posto”, si sfoga un altro padre: “Cinque figli, dei quali quattro lavoratori, sposati, senza un problema. Dove ho sbagliato, con Paolo? Io li ho tirati su tutti nello stesso modo”. “Non si amano mai due persone in maniera identica, neppure due figli”, cerca di spiegare con dolcezza Felicetta, che insieme con il marito Bruno forma una delle coppie ‘storiche’ dell’Anglad: ora affiancano Paolo nella direzione dell’associazione, compensando con un pizzico di dolcezza femminile e con una buona dose di concreta managerialità le impennate caratteriali del leader.

Le stesse caratteristiche, del resto, che rendono Paolo un personaggio carismatico, a partire dal look vagamente on the road, stivali e jeans a sigaretta, fino al viso scavato, somatizzazione di un metabolismo ormai irrimediabilmente segnato dalla lunga confidenza con eroina e simili porcherie. “Io ci sono passato”, è la frase che gli si sente ripetere più spesso alle persone che ha davanti, con un uso insistito della prima persona singolare che non denota soltanto un pizzico di egocentrismo, ma soprattutto la volontà di far capire che all’Anglad non si tengono lezioni ex cathedra, si mettono in comune esperienze tra pari.

“Cazzate”, taglia corto, senza troppi eufemismi, alla mamma che recrimina: “Giuseppe non scrive da mesi…”. Il diradamento dei rapporti epistolari – spiega – è un passaggio ineludibile dell’esperienza dei ragazzi a Sanpa, al quale, altrettanto implacabile, fa riscontro il rancore dei famigliari a casa. “Come si è conclusa la tua ultima visita? E la lettera precedente? Perché, se semplicemente non avesse voglia di scrivere, se la sera magari fosse stanco, preferisse vedere un film, fare due chiacchiere con gli amici o starsene sul suo letto? Qual è il problema?”.
Un ex tossico da record

Il campionario delle risposte di Paolo arriva sempre dalla sua biografia, dal curriculum di un ex tossico che ha inanellato una serie ‘da record’ di fughe dalla e di scazzi nella Comunità. Il vero problema della mamma comprensibilmente ansiosa è che ora, dopo qualche mese o anno di separazione, il ‘ragazzo’ sta diventando un adulto e lei deve prenderne atto, superando il rito di iniziazione della distanza. Lei, come tutti, deve fare i conti con i propri rimorsi, rimpianti, sensi di colpa. Non può non chiedersi “dove ho sbagliato?”.

Dall’inferno al purgatorio
Così le storie dei genitori dell’Anglad scorrono tra vedovanze e orfanità, cattive compagnie, solitudini e separazioni che colpiscono, anche se la media non è molto diversa da quella che segna una società ormai alla deriva famigliare e comunitaria. Anzi, ascoltandole qui, queste storie di dolore quotidiano, finiscono per suscitare in chi le ascolta quasi un pizzico di invidia, oltre che di ammirazione. Avere attraversato certe bolge dell’inferno e avere acquisito la certezza di essere ormai sulla china del purgatorio, vuol dire sapere che prima o poi si uscirà a rivedere le stelle. Il che, in un periodo notturno come quello che stiamo tutti attraversando, non è certo poco.


3 Aprile 2009
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