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Inferno crack

«Sui sedili posteriori dell’auto sedeva un uomo bendato. Ai suoi lati due persone armate. Non sapevo che fare. Speravo solo di non dover assistere a un omicidio. Dopo pochi chilometri lo fecero scendere e inginocchiare. Gli urlavano frasi in una lingua a me sconosciuta, il kriol (creolo), un misto di portoghese e la loro lingua madre. Di certo lo minacciavano. Scattai le prime foto dalla macchina. Poi scesi per farne altre. Credevo l’avrebbero ucciso, poi un calcio alla schiena, l’uomo che caracolla a terra e noi che ce ne andiamo». Alcune di queste foto sono state utilizzate per la mostra “Narco”, realizzata al WeFree day, dedicata alla realtà della Guinea Bissau. Chi le ha scattate, trovandosi in quella difficile situazione, è Marco Vernaschi, fotoreporter torinese che da anni vive a Buenos Aires e che lavora per il Pulitzer Center on Crisis Reporting. Con questo reportage intitolato “West Africa’s Achilles’ Heel”, ha vinto l’ultimo World Press Photo sezione “Storie”. Due mesi di lavoro sul campo, per realizzare un reportage su quello che è diventato il nuovo crocevia del traffico di cocaina.
«Si dice cocaina, narcotraffico, e si pensa al Sud America. Invece ora il commercio di questa sostanza ha travolto anche l’Africa, o meglio questo piccolo Stato dove la droga fa scalo prima di arrivare in Europa».

Perché ha deciso di indagare su questo Paese?
Avevo già realizzato un servizio sul narcotraffico in Bolivia e ho deciso di scavare più a fondo. Ho così notato che la Guinea Bissau, un Paese sconosciuto ai più, era diventato di grande interesse per il Sud America. Si tratta di uno Stato che ha 90 piccole isole di fronte la costa, non ha un corpo militare di marina e la situazione politica è costantemente instabile. Un terreno perfetto per il narcotraffico.

Marco si è recato in Guinea Bissau e si è infiltrato in una banda di narcotrafficanti. Come è stato possibile?
Ho ottenuto la collaborazione dell’Interpol, la polizia internazionale contro il crimine. Arrivato sul posto, mi ha fornito una lista di narcotrafficanti che potevo avvicinare e un’altra con quelli da evitare. Ne trovai uno disposto a parlare con me, gli spiegai che volevo fare un libro fotografico, gli feci vedere alcuni miei lavori e gli dissi che non avrei immortalato il suo viso né avrei fatto il suo nome alle forze di polizia. In realtà era stata l’Interpol a darmi il suo contatto, quindi sapeva già chi era e che cosa faceva. Evidentemente per loro si tratta un pesce piccolo nel mare dei narcos.

Immagino non sia stato semplice conquistare la sua fiducia.
Ho iniziato a visitare con lui gli slum di Bissau e pian piano mi ha permesso di partecipare alle tante feste che lui e i suoi compagni organizzano. Sono loro a gestire il mercato cittadino del crack, un derivato della cocaina. Se questo Paese è diventato il punto di smistamento della coca per l’Europa, allo stesso tempo ha una popolazione che si sta distruggendo a forza di crack.

Ma se i narcos che hai conosciuto sono i “pesci piccoli”, chi è che guida il traffico di coca?
Sono i libanesi che fanno parte degli Hezbollah, l’organizzazione estremista-fondamentalista di matrice Islamica, che utilizza questi traffici illeciti per finanziarsi. Non per niente sono i più pericolosi. Ho ricevuto diverse minacce da loro, sino a rientrare nella camera di albergo e ritrovare il letto sfatto, i lavandini aperti e tappati e i vestiti ordinati a terra. Chiamata la sicurezza dell’albergo, mi dissero che si trattava solo di un avvertimento. I libanesi non accettano che qualcuno si intrometta nel loro lavoro.

Due mesi trascorsi a fianco dei narcotrafficanti. Che idea si è fatto di loro?
In Occidente pensiamo sempre al narcotraffico armato alla Pablo Escobar, ma io ho visto tante povere persone che non hanno opzioni. Non si possono permettere il lusso di scegliere e per forza di cose percorrono la strada dell’illegalità. Poi ci sono anche quelli armati, ma la maggior parte di chi produce droga o vi lavora, lo fa solo perché non ha alternative.


7 Dicembre 2010
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