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Messico tossico

Di Giuseppe Di Eugenio

Cinquantamila morti in quattro anni. Più di quelli che si contano in dieci anni di conflitto in Afghanistan. È il bilancio della guerra della droga che si combatte in Messico tra narcotrafficanti e forze dell’ordine. Un’escalation di violenza partita dal 2006, quando il presidente Felipe Calderon, con l’appoggio degli Usa, ha dichiarato guerra ai cartelli.

Sette cosche
Da una decina d’anni, infatti la droga non solo transita, ma viene direttamente prodotta nel paese latino-americano. Si contano sette cosche che, rimpiazzando i colombiani, esportano soprattutto cocaina, ma anche marijuana, anfetamina, ketamina e, da un paio d’anni, eroina verso il ricco e confinante mercato statunitense.
Un tesoro da 280 miliardi di dollari per il quale i narcos puntano a controllare il territorio e non esitano a massacrare cittadini innocenti. Los Zetas, uno dei cartelli più feroci, è sorto da un gruppo di 70 ex sottufficiali delle Forze speciali messicane: oggi conta 700 membri, tutti abili professionisti, addestrati da agenti stranieri, che conoscono e praticano le tecniche di guerriglia, utilizzando apparati di comunicazione criptati e arsenali composti da bazooka, mitragliatrici, fucili d’assalto.

Sono loro gli autori dell’assalto al Casinò Royale di Monterrey di metà agosto: 52 morti in 150 secondi per aver rifiutato la “protezione”, cioè di pagare una tangente del 10 per cento sugli incassi. Muore chi non si piega, chi indaga, chi fa parte delle bande nemiche, muoiono gli ostaggi per i quali non si paga il riscatto.
Qualcuno considera quella lanciata da Calderon una sfida impossibile. La polizia è mal pagata, inefficiente e corrotta. Il presidente ha cambiato uomini e mezzi, schierando sul campo le Forze armate, ma la militarizzazione, criticata dagli stessi Stati Uniti, ha solo peggiorato le cose. I narcos non si tirano indietro e non hanno doveri da rispettare.
Adesso il presidente è sospettato di essersi appoggiato ai Cartelli meno pericolosi, i boss di Sinaloa, nel tentativo di rompere gli equilibri tra le organizzazioni. E anche di recuperare consensi in vista delle elezioni che si terranno nel 2012. Così si sono contati numerosi arresti tra le fila dei clan rivali più forti, i quali hanno però reagito con una violenza disumana.

Controllo ed equilibrio
«Pur sapendo che gran parte della popolazione era contraria», afferma il poeta Javier Sicilia, insignito dell’Aguascalientes, il più prestigioso premio letterario messicano, «Calderón ha scatenato la guerra semplicemente perché gli offriva la possibilità di legittimare la propria presidenza». Una scelta «terribilmente negativa», considerando che i capi del narcotraffico «riuscivano almeno ad assicurare qualche controllo ed equilibrio», mentre ora sono spuntati fuori «una gran quantità di piccoli gruppi malavitosi, con aumento dei sequestri di persona e degli immigrati clandestini».
Divergenze di tipo strategico sulle modalità con cui affrontare questa piaga, che finiscono per rafforzare i criminali, come del resto accade ogni qualvolta la malavita riesce ad affermarsi come un elemento endemico del territorio, basti pensare alle polemiche che ancora vengono sollevate in merito alla presunta “pace separata” che alcune branche dello Stato italiano avrebbero stretto con la mafia. O a quelle relative al vantaggio di una pax mafiosa tra le cosche, che ne aumenti il potere ma assicuri un’attività criminale meno aggressiva.

Le zone più pericolose sono quelle di frontiera dove la droga transita. Ciudad Juarez, 1.300 mila abitanti al confine con El Paso in Texas, è considerata la città più violenta al mondo. Vi sono state ammazzate 5.316 persone dal 2009 al febbraio 2011, quasi sette omicidi al giorno. A causa delle sparatorie per le strade, molti negozi si sono trasferiti ai piani alti degli edifici, 4.280 attività commerciali su 5.480 hanno chiuso e un quarto delle abitazioni sono state abbandonate. «Non è certo una guerra per la libertà o per gli ideali, ma unicamente per il denaro», afferma la giornalista Luz del Carmen, spiegando che il compenso per chi spara e uccide è di mille pesos, meno di 60 euro: «Questa è la differenza fra la vita e la morte».

Violenze efferate
Ma a lasciare allibiti è anche l’efferatezza delle violenze. In questa città, dal 1993, sono state uccise almeno cinquemila donne, in gran parte operaie delle fabbriche locali, le maquilladores: torturate, mutilate e uccise. Sui loro corpi, spesso bruciati, resi irriconoscibili e abbandonati nel deserto, sono stati riscontrati molte volte segni di morsi, stupri, strangolamenti, crani fracassati. Molte di loro presentavano caratteristiche fisiche simili: corporatura minuta, capelli neri e lunghi, dai 14 ai 40 anni, alcune persino bambine.
Il movente di questi omicidi appare ancora sconosciuto, ma tra le possibili cause vengono ipotizzati riti satanici, commercio di organi, e “snuff movies”, i video porno che si concludono con la morte della protagonista.
Tijuana, altra città di confine e di bordelli, segue Ciudad Juarez in questa atroce classifica con 2.349 vittime dal 2008 al 2010. La violenza è comunque una costante di tutto il Messico. Persino ad Acapulco, storica meta di vacanze, oltre 140 scuole sono rimaste chiuse: gli insegnanti erano oggetto di minacce e aggressioni e si sono rifiutati di presentarsi al lavoro.

Ma oltre che contro i narcos, le denunce riguardano anche i “federales”, gli agenti che con la gente usano metodi quanto meno spicci, minacciano, rubano e praticano ogni genere di estorsione. «La polizia è parte determinante di un sistema basato interamente sulla corruzione», sostiene Gerard Rodriguez, direttore di El Diario. «In realtà i narcos sono loro, che non vengono mai arrestati».
Il sospetto è che esista una vera e propria connivenza, che si esprime nella coltre di omertà che protegge il narcotraffico e coinvolge politici, giudici, impresari e forze dell’ordine. Secondo alcuni organi della stampa locale, i signori della droga avrebbero sborsato 2,75 miliardi di pesos, 150 milioni di euro, per comprare la complicità delle istituzioni.

La criminalità come sistema
Non desta stupore quindi se il 95 per cento dei crimini rimane irrisolto. I giovani, destinati a guadagnare pochi pesos in fabbrica, sono scoraggiati e si abituano sin da bambini alla violenza, crescono con l’idea che ammazzare per “mestiere” sia del tutto normale. Ed ecco un’altra triste, inquietante analogia con quanto avviene anche in altre latitudini, anche prossime a noi, laddove la criminalità organizzata si erge a “sistema”.
Anche l’Alto commissariato per i diritti umani delle Nazioni Unite si è detto «estremamente preoccupato» per l’impunità che impera nel Paese e ha chiesto alle autorità di aprire «indagini complete e imparziali» sui recenti, ripetuti omicidi di giornalisti. Nel 2010, ne sono stati assassinati nove e altri quattro sono scomparsi: 74 i cronisti fatti fuori dal 2000.

I narcos vogliono imporre il silenzio o le loro notizie e le loro versioni, vogliono condizionare l’opinione pubblica, oltre che terrorizzarla. Ma la stampa deve guardarsi anche dal criticare troppo la polizia: svelare abusi o eccessi nella repressione può essere fatale. Il giornalismo è un mestiere pericoloso in Messico e molti giornali chiudono. Stessi problemi per il web: le voci libere vanno eliminate. A Nueva Laredo, tre blogger sono stati decapitati con la motosega ed esposti in pubblico, a monito per la gente comune, per chi magari usa Facebook come strumento di denuncia e informazione.
Il potere dei narcos cresce, i consumatori aumentano e qualcuno punta il dito anche contro Barack Obama, che nel discorso all’Assemblea dell’Onu sui conflitti mondiali ha ignorato la guerra della droga. Probabilmente gli States non sanno che pesci prendere contro questo “esercito del male”.

comunicati

7 Novembre 2011
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