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Quando la famiglia manca

L’odore vivo dell’erba appena tagliata, del grasso steso sugli scarpini di pelle.

Riaffiorano dopo anni, ricordi di un’infanzia passata in un rettangolo magico, fatto di sudore, di amici e nemici, di ginocchia sbucciate, fatto di sogni da numeri dieci. All’età di sei anni, il mio più grande fun, mio padre, m’iscrisse nella scuola calcio del paese. La passione che fino a quel momento era al centro della mia vita, diventò cosi finalmente un vero impegno. Con il pallone ci andavo persino a dormire ed era per me il compagno più fidato. A ogni sfida, il campo di gioco si trasformava in un campo da battaglia, mi sentivo un guerriero pronto a vincere la mia partita. Gli avversari, erano le mie paure, le mie difficoltà nascoste, e fare goal era il mio modo di sconfiggerle.

Come ogni ragazzo che ama il calcio, avevo anche io il mio calciatore preferito, il mio idolo unico e inimitabile. In videocassetta, guardavo come un mantra, le giocate del più grande calciatore di tutti i tempi, Diego Armando Maradona. Per me, era puro genio, m’incantava e m’ispirava. Compresi nel tempo, che ad attrarmi era la sua figura ribelle e fuori dagli schemi e che la mia vera natura era sempre più incline a quel modo d’essere. Come lui, riuscivo a essere libero di esprimere il mio lato creativo, attraverso il dribbling, il tiro, i cambi di gioco improvvisi, disegnando con la mia fantasia geometrie di gioco sempre diverse fra loro.

Andai avanti, ma crescendo le cose intorno a me cominciavano a mutare. A un tratto mio padre, il mio più grande fun, smise di accompagnarmi ovunque io giocassi, i problemi economici e i sempre più frequenti litigi con mia madre diventarono normale quotidianità, e come molto spesso accade con le passioni, il calcio diventò il mio rifugio, il mio scudo e il mio sfogo personale a una rabbia che cresceva incessante. Ora, molti chilometri mi separavano dal campo, dove mi allenavo. Mi procurai allora una vecchia bici rossa. Pedalavo e sognavo, pedalavo sempre più forte per scappare da tutti, pedalavo con il freddo pungente dell’inverno, con le piogge dell’autunno, con il caldo torrido dell’estate. Nulla mi fermava. L’unica cosa importante era allenarmi e diventare sempre più forte. Il sacrificio e la costanza finalmente mi premiarono e presto arrivò la convocazione in una squadra impegnata nel campionato Nazionale. Questa nuova avventura calcistica coincise però, con la mia adolescenza decisamente troppo turbolenta e incasinata. Sentivo dentro di me, la necessità di evadere dai problemi che mi circondavano scoprendomi di una fragilità che non immaginavo. Fu allora che mi avvicinai a chi come me stava fuggendo. Quando in casa le urla si facevano sempre più forti e il peggio stava per accadere, l’amata fuga era la cosa migliore da fare. Ora avevo i miei amici che mi capivano

molto meglio dell’allenatore che nella nuova squadra pretendeva e basta. C. era il suo nome. Con lui mi sentivo invisibile, uno in mezzo a tanti. I miei occhi avevano perso la loro sprigionante luce, i miei movimenti non erano più sciolti come prima, e i segni che qualcosa non andava più come un tempo erano ormai troppo visibili per non capire che avevo bisogno di un aiuto, di qualcuno che mi stesse vicino senza giudicare la mia situazione, il mio nuovo aspetto. C. tutto questo non lo capiva. Cominciai così a saltare gli allenamenti in maniera sempre più frequente. Lentamente, mi stavo lasciando andare a un destino molto diverso da quello che avevo sempre sognato. Conobbi un nuovo modo di sfogare quella costante rabbia e, persi il controllo sprofondando il mio dolore nella droga. Così, non mi bastava più calciare un pallone per allontanare quelle difficoltà nascoste, quelle paure che un tempo sconfiggevo a suon di goal, e un giorno sono uscito da quel rettangolo magico. Le luci si sono spente, intorno a me non c’erano più né amici né nemici, e ho smesso di sognare.

A un tratto, tutto è cambiato, e la mia vita è iniziata a scivolare via. Sono finito in fuorigioco.


13 Giugno 2016
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