Dona ora Acquista i prodotti

Tra pusher e colletti bianchi

«Di quel posto mi ricordo l’odore. Ogni tanto è come se mi tornasse alle narici e all’inizio mi dava una grande ansia. Ora va meglio, ma mi dà ancora fastidio, non lo sopporto». Lei oggi ha una ventina d’anni, arrivata a San Patrignano appena diciottenne, e l’odore che ancora sente è quello che respirava al bosco di Rogoredo.

Lo frequentava ogni giorno, prima di entrare in Comunità, una adolescente fra pusher, sentinelle e decine e decine di persone in cerca di eroina a poco prezzo. Dice che allora non aveva paura. Anzi, che non provava proprio nulla, e niente le interessava. Voleva solo provare tutto, e dopo alcol, canne, pasticche e cocaina, un giorno è andata a Rogoredo, una ragazzina con cappuccio in testa e zainetto in spalla.

«Non avevo paura, non mi importava di morire o vivere, non mi interessava cosa provavano i miei genitori. Uscivo, andavo alle feste, ai rave in giro per l’Italia, sono stata in vari posti all’estero. Sapevo che alcuni del mio gruppo si facevano, ma ai tempi ancora quasi nessuno conosceva quel posto. Un giorno, dopo che era successo qualche casino a casa, ci sono andata. Era una giornata brutta — ricorda — pioveva, faceva  freddo. Non si capiva da dove si entrava… dovevi superare un guardrail, poi c’era la strada. Io andavo  avanti, volevo vedere dove arrivavo. Sono arrivata dove c’era tutta una fila di gente. Lì non mi avevano mai  vista, così mi hanno fatto abbassare il cappuccio e mi hanno guardato nello zaino. Mi hanno fatto passare.  Mi colpì il fatto che c’era gente assurda, di tutti i tipi. Uno in giacca e cravatta con la borsa del lavoro, una tipa  in tutina di ciniglia rosa con le borse della spesa, fattoni classici con i dreadlock, ma anche gente che potresti vedere al bar».

Per lei è stato il primo di una lunga serie di appuntamenti con l’eroina. «Mi ero comprata la siringa in una farmacia lì vicino, ti guardavano male, ma poi te la davano. Ho comprato la mia prima dose e me la sono iniettata da sola, non ero capace, mi sono fatta male. Ricordo un tipo che mi seguiva, credo che volesse scroccare. Da quel momento ci sono andata tutti i giorni. Ci sono sempre tornata, anche dopo i periodi in cui mi mandavano in comunità. La vita che facevo mi andava bene così».

A quella vita ci era arrivata rapidamente, dopo un’infanzia e una preadolescenza che lei definisce “anomale”. «Mi sono sempre sentita particolare, diversa, anche per l’educazione che ho avuto. Avevo le mie passioni e vivevo molto nel mio mondo. Poi confrontarsi con l’esterno mi ha cominciato a pesare. Alle  medie mi sentivo diversa dalle altre ragazze, tutte carine, precisine e ben vestite. Dall’altra parte c’erano gli sfattoni, gli alternativi, e mi sono sentita più a mio agio: con loro non dovevi essere chissà chi. Dopo le medie ho provato a frequentare un anno di liceo, stavo insieme ad un rappresentante di istituto un po’  punk, andavamo alle manifestazioni contro l’Expo e la Tav, spaccavamo le vetrine… Ma in fondo non ci credevo, non mi interessava. Volevo solo distinguermi. Così non mi è bastato provare le canne a 12 anni, provare la coca… volevo provare la roba».

Oggi sentire parlare dello “zoo” di Rogoredo le fa rabbia. «Il fatto è che di quel posto la gente si è accorta solo dopo i morti e dopo l’attenzione mediatica. Prima nessuno si era mai occupato della cosa, mentre oggi tutti dicono ‘Oh, guarda quei poveri ragazzi in difficoltà… come uccidono le emozioni’. A dirlo è la stessa gente che prima ti scansava schifata. Il problema non è quel luogo, se lo chiudono non fanno altro che spostarlo altrove. Il problema sono tutte le persone che se ne fregano, è questa società come è fatta».

A San Patrignano è arrivata dopo un percorso accidentato fra altre comunità e ricoveri. «Per me all’inizio è stato durissimo. La cosa più difficile è stata vedere la persona che ero e che facevo finta di essere. Anche qui per diverso tempo ho fatto finta di essere meno sensibile e più disinteressata. Stare a tavola con le altre ragazze ad esempio era una tortura, non parlavo mai e fissavo le scarpe. Poi ho capito che mi piaceva che le persone stessero con me, che mi parlassero. Qui ho scoperto che mi piace correre e ho ripreso confidenza con il mio corpo, prima non mi guardavo neanche allo specchio, per la rabbia non mangiavo e vomitavo. E a settembre riprenderò la scuola con il primo anno di alberghiero. Mi piace cucinare e una volta terminato il  mio percorso in comunità vorrei trovare lavoro in quel settore».

Questo articolo è stato pubblicato sul num. 49/2020 di SanpaNews

Se vuoi ricevere la rivista clicca qui www.sanpatrignano.org/sostienici/sanpanews-voci-crescere/


17 Novembre 2020
condividi
Iscriviti alla Newsletter e resta in contatto con noi!